Purgatorio – Canto XXXIII

Purgatorio – Canto XXXIII / Trentatreesimo Canto / Canto 33°

Temi e canti: 1-30 Pianto delle Virtù e intervento di Beatrice • 31-90 Profezia di Beatrice • 91-135 Davanti all’Eunoè • 136-145 Fine del rito e della cantica

Purgatorio

CANTO XXXIII

‘Deus, venerunt gentes’, alternando

or tre or quattro dolce salmodia,

le donne incominciaro, e lagrimando;   [3]

e Beatrice sospirosa e pia,

quelle ascoltava sì fatta, che poco

più a la croce si cambiò Maria.   [6]

Ma poi che l’altre vergini dier loco

a lei di dir, levata dritta in pè,

rispuose, colorata come foco:   [9]

‘Modicum, et non videbitis me;

et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me’.   [12]

Poi le si mise innanzi tutte e sette,

e dopo sé, solo accennando, mosse

me e la donna e ‘l savio che ristette.   [15]

Così sen giva; e non credo che fosse

lo decimo suo passo in terra posto,

quando con li occhi li occhi mi percosse;   [18]

e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,

mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,

ad ascoltarmi tu sie ben disposto».   [21]

Sì com’io fui, com’io dovea, seco,

dissemi: «Frate, perché non t’attenti

a domandarmi omai venendo meco?».   [24]

Come a color che troppo reverenti

dinanzi a suo maggior parlando sono,

che non traggon la voce viva ai denti.   [27]

avvenne a me, che sanza intero suono

incominciai: «Madonna, mia bisogna

voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».   [30]

Ed ella a me: «Da tema e da vergogna

voglio che tu omai ti disviluppe,

sì che non parli più com’om che sogna.   [33]

Sappi che ‘l vaso che ‘l serpente ruppe

fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda

che vendetta di Dio non teme suppe.   [36]

Non sarà tutto tempo sanza reda

l’aguglia che lasciò le penne al carro,

per che divenne mostro e poscia preda;   [39]

ch’io veggio certamente, e però il narro,

a darne tempo già stelle propinque,

secure d’ogn’intoppo e d’ogni sbarro,   [42]

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque.   [45]

E forse che la mia narrazion buia,

qual Temi e Sfinge, men ti persuade,

perch’a lor modo lo ‘ntelletto attuia;   [48]

ma tosto fier li fatti le Naiade,

che solveranno questo enigma forte

sanza danno di pecore o di biade.   [51]

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a’ vivi

del viver ch’è un correre a la morte.   [54]

E aggi a mente, quando tu le scrivi,

di non celar qual hai vista la pianta

ch’è or due volte dirubata quivi.   [57]

Qualunque ruba quella o quella schianta,

con bestemmia di fatto offende a Dio,

che solo a l’uso suo la creò santa.   [60]

Per morder quella, in pena e in disio

cinquemilia anni e più l’anima prima

bramò colui che ‘l morso in sé punio.   [63]

Dorme lo ‘ngegno tuo, se non estima

per singular cagione esser eccelsa

lei tanto e sì travolta ne la cima.   [66]

E se stati non fossero acqua d’Elsa

li pensier vani intorno a la tua mente,

e ‘l piacer loro un Piramo a la gelsa,   [69]

per tante circostanze solamente

la giustizia di Dio, ne l’interdetto,

conosceresti a l’arbor moralmente.   [72]

Ma perch’io veggio te ne lo ‘ntelletto

fatto di pietra e, impetrato, tinto,

sì che t’abbaglia il lume del mio detto,   [75]

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,

che ‘l te ne porti dentro a te per quello

che si reca il bordon di palma cinto».   [78]

E io: «Sì come cera da suggello,

che la figura impressa non trasmuta,

segnato è or da voi lo mio cervello.   [81]

Ma perché tanto sovra mia veduta

vostra parola disiata vola,

che più la perde quanto più s’aiuta?».   [84]

«Perché conoschi», disse, «quella scuola

c’hai seguitata, e veggi sua dottrina

come può seguitar la mia parola;   [87]

e veggi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina».   [90]

Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda

ch’i’ straniasse me già mai da voi,

né honne coscienza che rimorda».   [93]

«E se tu ricordar non te ne puoi»,

sorridendo rispuose, «or ti rammenta

come bevesti di Letè ancoi;   [96]

e se dal fummo foco s’argomenta,

cotesta oblivion chiaro conchiude

colpa ne la tua voglia altrove attenta.   [99]

Veramente oramai saranno nude

le mie parole, quanto converrassi

quelle scovrire a la tua vista rude».   [102]

E più corusco e con più lenti passi

teneva il sole il cerchio di merigge,

che qua e là, come li aspetti, fassi   [105]

quando s’affisser, sì come s’affigge

chi va dinanzi a gente per iscorta

se trova novitate o sue vestigge,   [108]

le sette donne al fin d’un’ombra smorta,

qual sotto foglie verdi e rami nigri

sovra suoi freddi rivi l’Alpe porta.   [111]

Dinanzi ad esse Eufratès e Tigri

veder mi parve uscir d’una fontana,

e, quasi amici, dipartirsi pigri.   [114]

«O luce, o gloria de la gente umana,

che acqua è questa che qui si dispiega

da un principio e sé da sé lontana?».   [117]

Per cotal priego detto mi fu: «Priega

Matelda che ‘l ti dica». E qui rispuose,

come fa chi da colpa si dislega,   [120]

la bella donna: «Questo e altre cose

dette li son per me; e son sicura

che l’acqua di Letè non gliel nascose».   [123]

E Beatrice: «Forse maggior cura,

che spesse volte la memoria priva,

fatt’ha la mente sua ne li occhi oscura.   [126]

Ma vedi Eunoè che là diriva:

menalo ad esso, e come tu se’ usa,

la tramortita sua virtù ravviva».   [129]

Come anima gentil, che non fa scusa,

ma fa sua voglia de la voglia altrui

tosto che è per segno fuor dischiusa;   [132]

così, poi che da essa preso fui,

la bella donna mossesi, e a Stazio

donnescamente disse: «Vien con lui».   [135]

S’io avessi, lettor, più lungo spazio

da scrivere, i’ pur cantere’ in parte

lo dolce ber che mai non m’avrìa sazio;   [138]

ma perché piene son tutte le carte

ordite a questa cantica seconda,

non mi lascia più ir lo fren de l’arte.   [141]

Io ritornai da la santissima onda

rifatto sì come piante novelle

rinnovellate di novella fronda,   [144]

puro e disposto a salire alle stelle.