Purgatorio – Canto XXIII

Purgatorio – Canto XXIII / Ventitreesimo Canto / Canto 23°

Temi e canti: 1-36 I golosi • 37-60 Incontro con Forese Donati • 61-133 Colloquio con Forese Donati

Purgatorio

CANTO XXIII

Mentre che li occhi per la fronda verde

ficcava io sì come far suole

chi dietro a li uccellin sua vita perde,   [3]

lo più che padre mi dicea: «Figliuole,

vienne oramai, ché ‘l tempo che n’è imposto

più utilmente compartir si vuole».   [6]

Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto,

appresso i savi, che parlavan sìe,

che l’andar mi facean di nullo costo.   [9]

Ed ecco piangere e cantar s’udìe

‘Labia mea, Domine’ per modo

tal, che diletto e doglia parturìe.   [12]

«O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?»,

comincia’ io; ed elli: «Ombre che vanno

forse di lor dover solvendo il nodo».   [15]

Sì come i peregrin pensosi fanno,

giugnendo per cammin gente non nota,

che si volgono ad essa e non restanno,   [18]

così di retro a noi, più tosto mota,

venendo e trapassando ci ammirava

d’anime turba tacita e devota.   [21]

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,

palida ne la faccia, e tanto scema,

che da l’ossa la pelle s’informava.   [24]

Non credo che così a buccia strema

Erisittone fosse fatto secco,

per digiunar, quando più n’ebbe tema.   [27]

Io dicea fra me stesso pensando: ‘Ecco

la gente che perdé Ierusalemme,

quando Maria nel figlio diè di becco!’   [30]

Parean l’occhiaie anella sanza gemme:

chi nel viso de li uomini legge ‘omo’

ben avria quivi conosciuta l’emme.   [33]

Chi crederebbe che l’odor d’un pomo

sì governasse, generando brama,

e quel d’un’acqua, non sappiendo como?   [36]

Già era in ammirar che sì li affama,

per la cagione ancor non manifesta

di lor magrezza e di lor trista squama,   [39]

ed ecco del profondo de la testa

volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;

poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».   [42]

Mai non l’avrei riconosciuto al viso;

ma ne la voce sua mi fu palese

ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.   [45]

Questa favilla tutta mi raccese

mia conoscenza a la cangiata labbia,

e ravvisai la faccia di Forese.   [48]

«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia

che mi scolora», pregava, «la pelle,

né a difetto di carne ch’io abbia;   [51]

ma dimmi il ver di te, di’ chi son quelle

due anime che là ti fanno scorta;

non rimaner che tu non mi favelle!».   [54]

«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,

mi dà di pianger mo non minor doglia»,

rispuos’io lui, «veggendola sì torta.   [57]

Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;

non mi far dir mentr’io mi maraviglio,

ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».   [60]

Ed elli a me: «De l’etterno consiglio

cade vertù ne l’acqua e ne la pianta

rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.   [63]

Tutta esta gente che piangendo canta

per seguitar la gola oltra misura,

in fame e ‘n sete qui si rifà santa.   [66]

Di bere e di mangiar n’accende cura

l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo

che si distende su per sua verdura.   [69]

E non pur una volta, questo spazzo

girando, si rinfresca nostra pena:

io dico pena, e dovrìa dir sollazzo,   [72]

ché quella voglia a li alberi ci mena

che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,

quando ne liberò con la sua vena».   [75]

E io a lui: «Forese, da quel dì

nel qual mutasti mondo a miglior vita,

cinq’anni non son vòlti infino a qui.   [78]

Se prima fu la possa in te finita

di peccar più, che sovvenisse l’ora

del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,   [81]

come se’ tu qua sù venuto ancora?

Io ti credea trovar là giù di sotto

dove tempo per tempo si ristora».   [84]

Ond’elli a me: «Sì tosto m’ha condotto

a ber lo dolce assenzo d’i martìri

la Nella mia con suo pianger dirotto.   [87]

Con suoi prieghi devoti e con sospiri

tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,

e liberato m’ha de li altri giri.   [90]

Tanto è a Dio più cara e più diletta

la vedovella mia, che molto amai,

quanto in bene operare è più soletta;   [93]

ché la Barbagia di Sardigna assai

ne le femmine sue più è pudica

che la Barbagia dov’io la lasciai.   [96]

O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?

Tempo futuro m’è già nel cospetto,

cui non sarà quest’ora molto antica,   [99]

nel qual sarà in pergamo interdetto

a le sfacciate donne fiorentine

l’andar mostrando con le poppe il petto.   [102]

Quai barbare fuor mai, quai saracine,

cui bisognasse, per farle ir coperte,

o spiritali o altre discipline?   [105]

Ma se le svergognate fosser certe

di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna,

già per urlare avrian le bocche aperte;   [108]

ché se l’antiveder qui non m’inganna,

prima fien triste che le guance impeli

colui che mo si consola con nanna.   [111]

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!

vedi che non pur io, ma questa gente

tutta rimira là dove ‘l sol veli».   [114]

Per ch’io a lui: «Se tu riduci a mente

qual fosti meco, e qual io teco fui,

ancor fia grave il memorar presente.   [117]

Di quella vita mi volse costui

che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda

vi si mostrò la suora di colui»,   [120]

e ‘l sol mostrai; «costui per la profonda

notte menato m’ha d’i veri morti

con questa vera carne che ‘l seconda.   [123]

Indi m’han tratto sù li suoi conforti,

salendo e rigirando la montagna

che drizza voi che ‘l mondo fece torti.   [126]

Tanto dice di farmi sua compagna,

che io sarò là dove fia Beatrice;

quivi convien che sanza lui rimagna.   [129]

Virgilio è questi che così mi dice»,

e addita’lo; «e quest’altro è quell’ombra

per cui scosse dianzi ogne pendice   [132]

lo vostro regno, che da sé lo sgombra».