Purgatorio – Canto XXII

Purgatorio – Canto XXII / Ventiduesimo Canto / Canto 22°

Temi e canti: 1-54 Il peccato di Stazio • 55-93 Il cristianesimo di Stazio • 94-114 Notizie sul limbo • 115-154 Il sesto cerchio: l’albero capovolto

Purgatorio

CANTO XXII

Già era l’angel dietro a noi rimaso,

l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,

avendomi dal viso un colpo raso;   [3]

e quei c’hanno a giustizia lor disiro

detto n’avea beati, e le sue voci

con ‘sitiunt’, sanz’altro, ciò forniro.   [6]

E io più lieve che per l’altre foci

m’andava, sì che sanz’alcun labore

seguiva in sù li spiriti veloci;   [9]

quando Virgilio incominciò: «Amore,

acceso di virtù, sempre altro accese,

pur che la fiamma sua paresse fore;   [12]

onde da l’ora che tra noi discese

nel limbo de lo ‘nferno Giovenale,

che la tua affezion mi fé palese,   [15]

mia benvoglienza inverso te fu quale

più strinse mai di non vista persona,

sì ch’or mi parran corte queste scale.   [18]

Ma dimmi, e come amico mi perdona

se troppa sicurtà m’allarga il freno,

e come amico omai meco ragiona:   [21]

come poté trovar dentro al tuo seno

loco avarizia, tra cotanto senno

di quanto per tua cura fosti pieno?».   [24]

Queste parole Stazio mover fenno

un poco a riso pria; poscia rispuose:

«Ogne tuo dir d’amor m’è caro cenno.   [27]

Veramente più volte appaion cose

che danno a dubitar falsa matera

per le vere ragion che son nascose.   [30]

La tua dimanda tuo creder m’avvera

esser ch’i’ fossi avaro in l’altra vita,

forse per quella cerchia dov’io era.   [33]

Or sappi ch’avarizia fu partita

troppo da me, e questa dismisura

migliaia di lunari hanno punita.   [36]

E se non fosse ch’io drizzai mia cura,

quand’io intesi là dove tu chiame,

crucciato quasi a l’umana natura:   [39]

‘Per che non reggi tu, o sacra fame

de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,

voltando sentirei le giostre grame.   [42]

Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali

potean le mani a spendere, e pente’mi

così di quel come de li altri mali.   [45]

Quanti risurgeran coi crini scemi

per ignoranza, che di questa pecca

toglie ‘l penter vivendo e ne li stremi!   [48]

E sappie che la colpa che rimbecca

per dritta opposizione alcun peccato,

con esso insieme qui suo verde secca;   [51]

però, s’io son tra quella gente stato

che piange l’avarizia, per purgarmi,

per lo contrario suo m’è incontrato».   [54]

«Or quando tu cantasti le crude armi

de la doppia trestizia di Giocasta»,

disse ‘l cantor de’ buccolici carmi,   [57]

«per quello che Cliò teco lì tasta,

non par che ti facesse ancor fedele

la fede, sanza qual ben far non basta.   [60]

Se così è, qual sole o quai candele

ti stenebraron sì, che tu drizzasti

poscia di retro al pescator le vele?».   [63]

Ed elli a lui: «Tu prima m’inviasti

verso Parnaso a ber ne le sue grotte,

e prima appresso Dio m’alluminasti.   [66]

Facesti come quei che va di notte,

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte,   [69]

quando dicesti: ‘Secol si rinova;

torna giustizia e primo tempo umano,

e progenie scende da ciel nova’.   [72]

Per te poeta fui, per te cristiano:

ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,

a colorare stenderò la mano:   [75]

Già era ‘l mondo tutto quanto pregno

de la vera credenza, seminata

per li messaggi de l’etterno regno;   [78]

e la parola tua sopra toccata

si consonava a’ nuovi predicanti;

ond’io a visitarli presi usata.   [81]

Vennermi poi parendo tanto santi,

che, quando Domizian li perseguette,

sanza mio lagrimar non fur lor pianti;   [84]

e mentre che di là per me si stette,

io li sovvenni, e i lor dritti costumi

fer dispregiare a me tutte altre sette.   [87]

E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi

di Tebe poetando, ebb’io battesmo;

ma per paura chiuso cristian fu’mi,   [90]

lungamente mostrando paganesmo;

e questa tepidezza il quarto cerchio

cerchiar mi fé più che ‘l quarto centesmo.   [93]

Tu dunque, che levato hai il coperchio

che m’ascondeva quanto bene io dico,

mentre che del salire avem soverchio,   [96]

dimmi dov’è Terrenzio nostro antico,

Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:

dimmi se son dannati, e in qual vico».   [99]

«Costoro e Persio e io e altri assai»,

rispuose il duca mio, «siam con quel Greco

che le Muse lattar più ch’altri mai,   [102]

nel primo cinghio del carcere cieco:

spesse fiate ragioniam del monte

che sempre ha le nutrice nostre seco.   [105]

Euripide v’è nosco e Antifonte,

Simonide, Agatone e altri piùe

Greci che già di lauro ornar la fronte.   [108]

Quivi si veggion de le genti tue

Antigone, Deifile e Argia,

e Ismene sì trista come fue.   [111]

Védeisi quella che mostrò Langia;

èvvi la figlia di Tiresia, e Teti

e con le suore sue Deidamia».   [114]

Tacevansi ambedue già li poeti,

di novo attenti a riguardar dintorno,

liberi da saliri e da pareti;   [117]

e già le quattro ancelle eran del giorno

rimase a dietro, e la quinta era al temo,

drizzando pur in sù l’ardente corno,   [120]

quando il mio duca: «Io credo ch’a lo stremo

le destre spalle volger ne convegna,

girando il monte come far solemo».   [123]

Così l’usanza fu lì nostra insegna,

e prendemmo la via con men sospetto

per l’assentir di quell’anima degna.   [126]

Elli givan dinanzi, e io soletto

di retro, e ascoltava i lor sermoni,

ch’a poetar mi davano intelletto.   [129]

Ma tosto ruppe le dolci ragioni

un alber che trovammo in mezza strada,

con pomi a odorar soavi e buoni;   [132]

e come abete in alto si digrada

di ramo in ramo, così quello in giuso,

cred’io, perché persona sù non vada.   [135]

Dal lato onde ‘l cammin nostro era chiuso,

cadea de l’alta roccia un liquor chiaro

e si spandeva per le foglie suso.   [138]

Li due poeti a l’alber s’appressaro;

e una voce per entro le fronde

gridò: «Di questo cibo avrete caro».   [141]

Poi disse: «Più pensava Maria onde

fosser le nozze orrevoli e intere,

ch’a la sua bocca, ch’or per voi risponde.   [144]

E le Romane antiche, per lor bere,

contente furon d’acqua; e Daniello

dispregiò cibo e acquistò savere.   [147]

Lo secol primo, quant’oro fu bello,

fé savorose con fame le ghiande,

e nettare con sete ogne ruscello.   [150]

Mele e locuste furon le vivande

che nodriro il Batista nel diserto;

per ch’elli è glorioso e tanto grande   [153]

quanto per lo Vangelio v’è aperto».