Inferno – Canto XXIX

Inferno – Canto XXIX / Ventinovesimo Canto / Canto 29°

Temi e versi: 1-36 Geri del Bello • 37-72 La decima bolgia dei falsari • 73-139 Gli alchimisti • 73-120 Griffolino d’Arezzo • 121-139 Capocchio da Siena e la vanità dei senesi

Inferno

CANTO XXIX

La molta gente e le diverse piaghe

avean le luci mie sì inebriate,

che de lo stare a piangere eran vaghe.   [3]

Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?

perché la vista tua pur si soffolge

là giù tra l’ombre triste smozzicate?   [6]

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;

pensa, se tu annoverar le credi,

che miglia ventidue la valle volge.   [9]

E già la luna è sotto i nostri piedi:

lo tempo è poco omai che n’è concesso,

e altro è da veder che tu non vedi».   [12]

«Se tu avessi», rispuos’io appresso,

«atteso a la cagion perch’io guardava,

forse m’avresti ancor lo star dimesso».   [15]

Parte sen giva, e io retro li andava,

lo duca, già faccendo la risposta,

e soggiugnendo: «Dentro a quella cava   [18]

dov’io tenea or li occhi sì a posta,

credo ch’un spirto del mio sangue pianga

la colpa che là giù cotanto costa».   [21]

Allor disse ‘l maestro: «Non si franga

lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.

Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;   [24]

ch’io vidi lui a piè del ponticello

mostrarti, e minacciar forte, col dito,

e udi’ ‘l nominar Geri del Bello.   [27]

Tu eri allor sì del tutto impedito

sovra colui che già tenne Altaforte,

che non guardasti in là, sì fu partito».   [30]

«O duca mio, la violenta morte

che non li è vendicata ancor», diss’io,

«per alcun che de l’onta sia consorte,   [33]

fece lui disdegnoso; ond’el sen gio

sanza parlarmi, sì com’io estimo:

e in ciò m’ha el fatto a sé più pio».   [36]

Così parlammo infino al loco primo

che de lo scoglio l’altra valle mostra,

se più lume vi fosse, tutto ad imo.   [39]

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra

di Malebolge, sì che i suoi conversi

potean parere a la veduta nostra,   [42]

lamenti saettaron me diversi,

che di pietà ferrati avean li strali;

ond’io li orecchi con le man copersi.   [45]

Qual dolor fora, se de li spedali,

di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre

e di Maremma e di Sardigna i mali   [48]

fossero in una fossa tutti ‘nsembre,

tal era quivi, e tal puzzo n’usciva

qual suol venir de le marcite membre.   [51]

Noi discendemmo in su l’ultima riva

del lungo scoglio, pur da man sinistra;

e allor fu la mia vista più viva   [54]

giù ver lo fondo, la ‘ve la ministra

de l’alto Sire infallibil giustizia

punisce i falsador che qui registra.   [57]

Non credo ch’a veder maggior tristizia

fosse in Egina il popol tutto infermo,

quando fu l’aere sì pien di malizia,   [60]

che li animali, infino al picciol vermo,

cascaron tutti, e poi le genti antiche,

secondo che i poeti hanno per fermo,   [63]

si ristorar di seme di formiche;

ch’era a veder per quella oscura valle

languir li spirti per diverse biche.   [66]

Qual sovra ‘l ventre, e qual sovra le spalle

l’un de l’altro giacea, e qual carpone

si trasmutava per lo tristo calle.   [69]

Passo passo andavam sanza sermone,

guardando e ascoltando li ammalati,

che non potean levar le lor persone.   [72]

Io vidi due sedere a sé poggiati,

com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

dal capo al piè di schianze macolati;   [75]

e non vidi già mai menare stregghia

a ragazzo aspettato dal segnorso,

né a colui che mal volontier vegghia,   [78]

come ciascun menava spesso il morso

de l’unghie sopra sé per la gran rabbia

del pizzicor, che non ha più soccorso;   [81]

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,

come coltel di scardova le scaglie

o d’altro pesce che più larghe l’abbia.   [84]

«O tu che con le dita ti dismaglie»,

cominciò ‘l duca mio a l’un di loro,

«e che fai d’esse talvolta tanaglie,   [87]

dinne s’alcun Latino è tra costoro

che son quinc’entro, se l’unghia ti basti

etternalmente a cotesto lavoro».   [90]

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti

qui ambedue», rispuose l’un piangendo;

«ma tu chi se’ che di noi dimandasti?».   [93]

E ‘l duca disse: «I’ son un che discendo

con questo vivo giù di balzo in balzo,

e di mostrar lo ‘nferno a lui intendo».   [96]

Allor si ruppe lo comun rincalzo;

e tremando ciascuno a me si volse

con altri che l’udiron di rimbalzo.   [99]

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,

dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;

e io incominciai, poscia ch’ei volse:   [102]

«Se la vostra memoria non s’imboli

nel primo mondo da l’umane menti,

ma s’ella viva sotto molti soli,   [105]

ditemi chi voi siete e di che genti;

la vostra sconcia e fastidiosa pena

di palesarvi a me non vi spaventi».   [108]

«Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena»,

rispuose l’un, «mi fé mettere al foco;

ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.   [111]

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:

“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;

e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,   [114]

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo

perch’io nol feci Dedalo, mi fece

ardere a tal che l’avea per figliuolo.   [117]

Ma nell’ultima bolgia de le diece

me per l’alchìmia che nel mondo usai

dannò Minòs, a cui fallar non lece».   [120]

E io dissi al poeta: «Or fu già mai

gente sì vana come la sanese?

Certo non la francesca sì d’assai!».   [123]

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,

rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca

che seppe far le temperate spese,   [126]

e Niccolò che la costuma ricca

del garofano prima discoverse

ne l’orto dove tal seme s’appicca;   [129]

e tra’ne la brigata in che disperse

Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,

e l’Abbagliato suo senno proferse.   [132]

Ma perché sappi chi sì ti seconda

contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio,

sì che la faccia mia ben ti risponda:   [135]

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,

che falsai li metalli con l’alchìmia;

e te dee ricordar, se ben t’adocchio,   [138]

com’io fui di natura buona scimia».