Purgatorio – Canto XXIV

Purgatorio – Canto XXIV / Ventiquattresimo Canto / Canto 24°

Temi e canti: 1-33 Dante e Forese • 34-63 Bonagiunta e lo Stilnovo • 64-99 Profezia contro Corso Donati • 100-114 Il secondo albero • 115-129 Esempi di gola punita • 130-154 L’angelo della temperanza

Purgatorio

CANTO XXIV

Né ‘l dir l’andar, né l’andar lui più lento

facea, ma ragionando andavam forte,

sì come nave pinta da buon vento;   [3]

e l’ombre, che parean cose rimorte,

per le fosse de li occhi ammirazione

traean di me, di mio vivere accorte.   [6]

E io, continuando al mio sermone,

dissi: «Ella sen va sù forse più tarda

che non farebbe, per altrui cagione.   [9]

Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda;

dimmi s’io veggio da notar persona

tra questa gente che sì mi riguarda».   [12]

«La mia sorella, che tra bella e buona

non so qual fosse più, triunfa lieta

ne l’alto Olimpo già di sua corona».   [15]

Sì disse prima; e poi: «Qui non si vieta

di nominar ciascun, da ch’è sì munta

nostra sembianza via per la dieta.   [18]

Questi», e mostrò col dito, «è Bonagiunta,

Bonagiunta da Lucca; e quella faccia

di là da lui più che l’altre trapunta   [21]

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:

dal Torso fu, e purga per digiuno

l’anguille di Bolsena e la vernaccia».   [24]

Molti altri mi nomò ad uno ad uno;

e del nomar parean tutti contenti,

sì ch’io però non vidi un atto bruno.   [27]

Vidi per fame a vòto usar li denti

Ubaldin da la Pila e Bonifazio

che pasturò col rocco molte genti.   [30]

Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio

già di bere a Forlì con men secchezza,

e sì fu tal, che non si sentì sazio.   [33]

Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza

più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,

che più parea di me aver contezza.   [36]

El mormorava; e non so che «Gentucca»

sentiv’io là, ov’el sentia la piaga

de la giustizia che sì li pilucca.   [39]

«O anima», diss’io, «che par sì vaga

di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,

e te e me col tuo parlare appaga».   [42]

«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,

cominciò el, «che ti farà piacere

la mia città, come ch’om la riprenda.   [45]

Tu te n’andrai con questo antivedere:

se nel mio mormorar prendesti errore,

dichiareranti ancor le cose vere.   [48]

Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».   [51]

E io a lui: «I’ mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando».   [54]

«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!   [57]

Io veggio ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne;   [60]

e qual più a gradire oltre si mette,

non vede più da l’uno a l’altro stilo»;

e, quasi contentato, si tacette.   [63]

Come li augei che vernan lungo ‘l Nilo,

alcuna volta in aere fanno schiera,

poi volan più a fretta e vanno in filo,   [66]

così tutta la gente che lì era,

volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo,

e per magrezza e per voler leggera.   [69]

E come l’uom che di trottare è lasso,

lascia andar li compagni, e sì passeggia

fin che si sfoghi l’affollar del casso,   [72]

sì lasciò trapassar la santa greggia

Forese, e dietro meco sen veniva,

dicendo: «Quando fia ch’io ti riveggia?».   [75]

«Non so», rispuos’io lui, «quant’io mi viva;

ma già non fia il tornar mio tantosto,

ch’io non sia col voler prima a la riva;   [78]

però che ‘l loco u’ fui a viver posto,

di giorno in giorno più di ben si spolpa,

e a trista ruina par disposto».   [81]

«Or va», diss’el; «che quei che più n’ha colpa,

vegg’io a coda d’una bestia tratto

inver’ la valle ove mai non si scolpa.   [84]

La bestia ad ogne passo va più ratto,

crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,

e lascia il corpo vilmente disfatto.   [87]

Non hanno molto a volger quelle ruote»,

e drizzò li ochi al ciel, «che ti fia chiaro

ciò che ‘l mio dir più dichiarar non puote.   [90]

Tu ti rimani omai; ché ‘l tempo è caro

in questo regno, sì ch’io perdo troppo

venendo teco sì a paro a paro».   [93]

Qual esce alcuna volta di gualoppo

lo cavalier di schiera che cavalchi,

e va per farsi onor del primo intoppo,   [96]

tal si partì da noi con maggior valchi;

e io rimasi in via con esso i due

che fuor del mondo sì gran marescalchi.   [99]

E quando innanzi a noi intrato fue,

che li occhi miei si fero a lui seguaci,

come la mente a le parole sue,   [102]

parvermi i rami gravidi e vivaci

d’un altro pomo, e non molto lontani

per esser pur allora vòlto in laci.   [105]

Vidi gente sott’esso alzar le mani

e gridar non so che verso le fronde,

quasi bramosi fantolini e vani,   [108]

che pregano, e ‘l pregato non risponde,

ma, per fare esser ben la voglia acuta,

tien alto lor disio e nol nasconde.   [111]

Poi si partì sì come ricreduta;

e noi venimmo al grande arbore adesso,

che tanti prieghi e lagrime rifiuta.   [114]

«Trapassate oltre sanza farvi presso:

legno è più sù che fu morso da Eva,

e questa pianta si levò da esso».   [117]

Sì tra le frasche non so chi diceva;

per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,

oltre andavam dal lato che si leva.   [120]

«Ricordivi», dicea, «d’i maladetti

nei nuvoli formati, che, satolli,

Teseo combatter co’ doppi petti;   [123]

e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,

per che no i volle Gedeon compagni,

quando inver’ Madian discese i colli».   [126]

Sì accostati a l’un d’i due vivagni

passammo, udendo colpe de la gola

seguite già da miseri guadagni.   [129]

Poi, rallargati per la strada sola,

ben mille passi e più ci portar oltre,

contemplando ciascun sanza parola.   [132]

«Che andate pensando sì voi sol tre?».

sùbita voce disse; ond’io mi scossi

come fan bestie spaventate e poltre.   [135]

Drizzai la testa per veder chi fossi;

e già mai non si videro in fornace

vetri o metalli sì lucenti e rossi,   [138]

com’io vidi un che dicea: «S’a voi piace

montare in sù, qui si convien dar volta;

quinci si va chi vuole andar per pace».   [141]

L’aspetto suo m’avea la vista tolta;

per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,

com’om che va secondo ch’elli ascolta.   [144]

E quale, annunziatrice de li albori,

l’aura di maggio movesi e olezza,

tutta impregnata da l’erba e da’ fiori;   [147]

tal mi senti’ un vento dar per mezza

la fronte, e ben senti’ mover la piuma,

che fé sentir d’ambrosia l’orezza.   [150]

E senti’ dir: «Beati cui alluma

tanto di grazia, che l’amor del gusto

nel petto lor troppo disir non fuma,   [153]

esuriendo sempre quanto è giusto!».