Inferno – Canto XXVII

Inferno – Canto XXVII / Ventisettesimo Canto / Canto 27°

Temi e versi: 1-30 Guido da Montefeltro • 31-57 Le condizioni politiche della Romagna • 58-111 Il racconto di Guido • 112-136 La morte di Guido

Inferno

CANTO XXVII

Già era dritta in sù la fiamma e queta

per non dir più, e già da noi sen gia

con la licenza del dolce poeta,   [3]

quand’un’altra, che dietro a lei venia,

ne fece volger li occhi a la sua cima

per un confuso suon che fuor n’uscia.   [6]

Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima

col pianto di colui, e ciò fu dritto,

che l’avea temperato con sua lima,   [9]

mugghiava con la voce de l’afflitto,

sì che, con tutto che fosse di rame,

pur el pareva dal dolor trafitto;   [12]

così, per non aver via né foram

dal principio nel foco, in suo linguaggio

si convertian le parole grame.   [15]

Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio

su per la punta, dandole quel guizzo

che dato avea la lingua in lor passaggio,   [18]

udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo

la voce e che parlavi mo lombardo,

dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,   [21]

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,

non t’incresca restare a parlar meco;

vedi che non incresce a me, e ardo!   [24]

Se tu pur mo in questo mondo cieco

caduto se’ di quella dolce terra

latina ond’io mia colpa tutta reco,   [27]

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;

ch’io fui d’i monti là intra Orbino

e ‘l giogo di che Tever si diserra».   [30]

Io era in giuso ancora attento e chino,

quando il mio duca mi tentò di costa,

dicendo: «Parla tu; questi è latino».   [33]

E io, ch’avea già pronta la risposta,

sanza indugio a parlare incominciai:

«O anima che se’ là giù nascosta,   [36]

Romagna tua non è, e non fu mai,

sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;

ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.   [39]

Ravenna sta come stata è molt’anni:

l’aguglia da Polenta la si cova,

sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.   [42]

La terra che fé già la lunga prova

e di Franceschi sanguinoso mucchio,

sotto le branche verdi si ritrova.   [45]

E ‘l mastin vecchio e ‘l nuovo da Verrucchio,

che fecer di Montagna il mal governo,

là dove soglion fan d’i denti succhio.   [48]

Le città di Lamone e di Santerno

conduce il lioncel dal nido bianco,

che muta parte da la state al verno.   [51]

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,

così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte

tra tirannia si vive e stato franco.   [54]

Ora chi se’, ti priego che ne conte;

non esser duro più ch’altri sia stato,

se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte».   [57]

Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato

al modo suo, l’aguta punta mosse

di qua, di là, e poi diè cotal fiato:   [60]

«S’i’ credesse che mia risposta fosse

a persona che mai tornasse al mondo,

questa fiamma staria sanza più scosse;   [63]

ma però che già mai di questo fondo

non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,

sanza tema d’infamia ti rispondo.   [66]

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,

credendomi, sì cinto, fare ammenda;

e certo il creder mio venìa intero,   [69]

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,

che mi rimise ne le prime colpe;

e come e quare, voglio che m’intenda.   [72]

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe

che la madre mi diè, l’opere mie

non furon leonine, ma di volpe.   [75]

Li accorgimenti e le coperte vie

io seppi tutte, e sì menai lor arte,

ch’al fine de la terra il suono uscie.   [78]

Quando mi vidi giunto in quella parte

di mia etade ove ciascun dovrebbe

calar le vele e raccoglier le sarte,   [81]

ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,

e pentuto e confesso mi rendei;

ahi miser lasso! e giovato sarebbe.   [84]

Lo principe d’i novi Farisei,

avendo guerra presso a Laterano,

e non con Saracin né con Giudei,   [87]

ché ciascun suo nimico era cristiano,

e nessun era stato a vincer Acri

né mercatante in terra di Soldano;   [90]

né sommo officio né ordini sacri

guardò in sé, né in me quel capestro

che solea fare i suoi cinti più macri.   [93]

Ma come Costantin chiese Silvestro

d’entro Siratti a guerir de la lebbre;

così mi chiese questi per maestro   [96]

a guerir de la sua superba febbre:

domandommi consiglio, e io tacetti

perché le sue parole parver ebbre.   [99]

E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;

finor t’assolvo, e tu m’insegna fare

sì come Penestrino in terra getti.   [102]

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,

come tu sai; però son due le chiavi

che ‘l mio antecessor non ebbe care”.   [105]

Allor mi pinser li argomenti gravi

là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso ‘l peggio,

e dissi: “Padre, da che tu mi lavi   [108]

di quel peccato ov’io mo cader deggio,

lunga promessa con l’attender corto

ti farà triunfar ne l’alto seggio”.   [111]

Francesco venne poi com’io fu’ morto,

per me; ma un d’i neri cherubini

li disse: “Non portar: non mi far torto.   [114]

Venir se ne dee giù tra ‘ miei meschini

perché diede ‘l consiglio frodolente,

dal quale in qua stato li sono a’ crini;   [117]

ch’assolver non si può chi non si pente,

né pentere e volere insieme puossi

per la contradizion che nol consente”.   [120]

Oh me dolente! come mi riscossi

quando mi prese dicendomi: “Forse

tu non pensavi ch’io loico fossi!”.   [123]

A Minòs mi portò; e quelli attorse

otto volte la coda al dosso duro;

e poi che per gran rabbia la si morse,   [126]

disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;

per ch’io là dove vedi son perduto,

e sì vestito, andando, mi rancuro».   [129]

Quand’elli ebbe ‘l suo dir così compiuto,

la fiamma dolorando si partio,

torcendo e dibattendo ‘l corno aguto.   [132]

Noi passamm’oltre, e io e ‘l duca mio,

su per lo scoglio infino in su l’altr’arco

che cuopre ‘l fosso in che si paga il fio   [135]

a quei che scommettendo acquistan carco.