Inferno – Canto XXXIV

Inferno – Canto XXXIV / Trentaquattresimo Canto / Canto 34°

Temi e versi: 1-15 La Giudecca: i traditori dei benefattori • 16-56 Lucifero • 57-67 Giuda, Bruto e Cassio • 68-99 Discesa dei poeti lungo il corpo di Lucifero • 100-126 Spiegazione cosmologica di Virgilio • 127-139 Risalita agli antipodi dell’inferno • 139 E quindi uscimmo a riveder le stelle

Inferno

CANTO XXXIV

«Vexilla regis prodeunt inferni

verso di noi; però dinanzi mira»,

disse ‘l maestro mio «se tu ‘l discerni».   [3]

Come quando una grossa nebbia spira,

o quando l’emisperio nostro annotta,

par di lungi un molin che ‘l vento gira,   [6]

veder mi parve un tal dificio allotta;

poi per lo vento mi ristrinsi retro

al duca mio; ché non lì era altra grotta.   [9]

Già era, e con paura il metto in metro,

là dove l’ombre tutte eran coperte,

e trasparien come festuca in vetro.   [12]

Altre sono a giacere; altre stanno erte,

quella col capo e quella con le piante;

altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.   [15]

Quando noi fummo fatti tanto avante,

ch’al mio maestro piacque di mostrarmi

la creatura ch’ebbe il bel sembiante,   [18]

d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,

«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco

ove convien che di fortezza t’armi».   [21]

Com’io divenni allor gelato e fioco,

nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,

però ch’ogne parlar sarebbe poco.   [24]

Io non mori’ e non rimasi vivo:

pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,

qual io divenni, d’uno e d’altro privo.   [27]

Lo ‘mperador del doloroso regno

da mezzo ‘l petto uscìa fuor de la ghiaccia;

e più con un gigante io mi convegno,   [30]

che i giganti non fan con le sue braccia:

vedi oggimai quant’esser dee quel tutto

ch’a così fatta parte si confaccia.   [33]

S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,

e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia,

ben dee da lui proceder ogne lutto.   [36]

Oh quanto parve a me gran maraviglia

quand’io vidi tre facce a la sua testa!

L’una dinanzi, e quella era vermiglia;   [39]

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa

sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla,

e sé giugnieno al loco de la cresta:   [42]

e la destra parea tra bianca e gialla;

la sinistra a vedere era tal, quali

vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla.   [45]

Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,

quanto si convenia a tanto uccello:

vele di mar non vid’io mai cotali.   [48]

Non avean penne, ma di vispistrello

era lor modo; e quelle svolazzava,

sì che tre venti si movean da ello:   [51]

quindi Cocito tutto s’aggelava.

Con sei occhi piangea, e per tre menti

gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava.   [54]

Da ogne bocca dirompea co’ denti

un peccatore, a guisa di maciulla,

sì che tre ne facea così dolenti.   [57]

A quel dinanzi il mordere era nulla

verso ‘l graffiar, che talvolta la schiena

rimanea de la pelle tutta brulla.   [60]

«Quell’anima là sù c’ha maggior pena»,

disse ‘l maestro, «è Giuda Scariotto,

che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena.   [63]

De li altri due c’hanno il capo di sotto,

quel che pende dal nero ceffo è Bruto:

vedi come si storce, e non fa motto!;   [66]

e l’altro è Cassio che par sì membruto.

Ma la notte risurge, e oramai

è da partir, ché tutto avem veduto».   [69]

Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;

ed el prese di tempo e loco poste,

e quando l’ali fuoro aperte assai,   [72]

appigliò sé a le vellute coste;

di vello in vello giù discese poscia

tra ‘l folto pelo e le gelate croste.   [75]

Quando noi fummo là dove la coscia

si volge, a punto in sul grosso de l’anche,

lo duca, con fatica e con angoscia,   [78]

volse la testa ov’elli avea le zanche,

e aggrappossi al pel com’om che sale,

sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.   [81]

«Attienti ben, ché per cotali scale»,

disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso,

«conviensi dipartir da tanto male».   [84]

Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso,

e puose me in su l’orlo a sedere;

appresso porse a me l’accorto passo.   [87]

Io levai li occhi e credetti vedere

Lucifero com’io l’avea lasciato,

e vidili le gambe in sù tenere;   [90]

e s’io divenni allora travagliato,

la gente grossa il pensi, che non vede

qual è quel punto ch’io avea passato.   [93]

«Lèvati sù», disse ‘l maestro, «in piede:

la via è lunga e ‘l cammino è malvagio,

e già il sole a mezza terza riede».   [96]

Non era camminata di palagio

là ‘v’eravam, ma natural burella

ch’avea mal suolo e di lume disagio.   [99]

«Prima ch’io de l’abisso mi divella,

maestro mio», diss’io quando fui dritto,

«a trarmi d’erro un poco mi favella:   [102]

ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto

sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,

da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».   [105]

Ed elli a me: «Tu imagini ancora

d’esser di là dal centro, ov’io mi presi

al pel del vermo reo che ‘l mondo fóra.   [108]

Di là fosti cotanto quant’io scesi;

quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto

al qual si traggon d’ogne parte i pesi.   [111]

E se’ or sotto l’emisperio giunto

ch’è contraposto a quel che la gran secca

coverchia, e sotto ‘l cui colmo consunto   [114]

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca:

tu hai i piedi in su picciola spera

che l’altra faccia fa de la Giudecca.   [117]

Qui è da man, quando di là è sera;

e questi, che ne fé scala col pelo,

fitto è ancora sì come prim’era.   [120]

Da questa parte cadde giù dal cielo;

e la terra, che pria di qua si sporse,

per paura di lui fé del mar velo,   [123]

e venne a l’emisperio nostro; e forse

per fuggir lui lasciò qui loco vòto

quella ch’appar di qua, e sù ricorse».   [126]

Luogo è là giù da Belzebù remoto

tanto quanto la tomba si distende,

che non per vista, ma per suono è noto   [129]

d’un ruscelletto che quivi discende

per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,

col corso ch’elli avvolge, e poco pende.   [132]

Lo duca e io per quel cammino ascoso

intrammo a ritornar nel chiaro mondo;

e sanza cura aver d’alcun riposo,   [135]

salimmo sù, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle

che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.   [138]

E quindi uscimmo a riveder le stelle.