Paradiso – Canto XVI

Paradiso – Canto XVI / Sedicesimo Canto / Canto 16°

Temi e canti: 1-27 Domande di Dante a Cacciaguida • 28-46 Risposte di Cacciaguida: sulla famiglia • 46-154 Decadenza delle antiche famiglie fiorentine

Paradiso

CANTO XVI

O poca nostra nobiltà di sangue,

se gloriar di te la gente fai

qua giù dove l’affetto nostro langue,   [3]

mirabil cosa non mi sarà mai:

ché là dove appetito non si torce,

dico nel cielo, io me ne gloriai.   [6]

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:

sì che, se non s’appon di dì in die,

lo tempo va dintorno con le force.   [9]

Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,

in che la sua famiglia men persevra,

ricominciaron le parole mie;   [12]

onde Beatrice, ch’era un poco scevra,

ridendo, parve quella che tossio

al primo fallo scritto di Ginevra.   [15]

Io cominciai: «Voi siete il padre mio;

voi mi date a parlar tutta baldezza;

voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.   [18]

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza

la mente mia, che di sé fa letizia

perché può sostener che non si spezza.   [21]

Ditemi dunque, cara mia primizia,

quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni

che si segnaro in vostra puerizia;   [24]

ditemi de l’ovil di San Giovanni

quanto era allora, e chi eran le genti

tra esso degne di più alti scanni».   [27]

Come s’avviva a lo spirar d’i venti

carbone in fiamma, così vid’io quella

luce risplendere a’ miei blandimenti;   [30]

e come a li occhi miei si fé più bella,

così con voce più dolce e soave,

ma non con questa moderna favella,   [33]

dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’

al parto in che mia madre, ch’è or santa,

s’alleviò di me ond’era grave,   [36]

al suo Leon cinquecento cinquanta

e trenta fiate venne questo foco

a rinfiammarsi sotto la sua pianta.   [39]

Li antichi miei e io nacqui nel loco

dove si truova pria l’ultimo sesto

da quei che corre il vostro annual gioco.   [42]

Basti d’i miei maggiori udirne questo:

chi ei si fosser e onde venner quivi,

più è tacer che ragionare onesto.   [45]

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi

da poter arme tra Marte e ‘l Batista,

eran il quinto di quei ch’or son vivi.   [48]

Ma la cittadinanza, ch’è or mista

di Campi, di Certaldo e di Fegghine,

pura vediesi ne l’ultimo artista.   [51]

Oh quanto fora meglio esser vicine

quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo

e a Trespiano aver vostro confine,   [54]

che averle dentro e sostener lo puzzo

del villan d’Aguglion, di quel da Signa,

che già per barattare ha l’occhio aguzzo!   [57]

Se la gente ch’al mondo più traligna

non fosse stata a Cesare noverca,

ma come madre a suo figlio benigna,   [60]

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,

che si sarebbe vòlto a Simifonti,

là dove andava l’avolo a la cerca;   [63]

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;

sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,

e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.   [66]

Sempre la confusion de le persone

principio fu del mal de la cittade,

come del vostro il cibo che s’appone;   [69]

e cieco toro più avaccio cade

che cieco agnello; e molte volte taglia

più e meglio una che le cinque spade.   [72]

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia

come sono ite, e come se ne vanno

di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,   [75]

udir come le schiatte si disfanno

non ti parrà nova cosa né forte,

poscia che le cittadi termine hanno.   [78]

Le vostre cose tutte hanno lor morte,

sì come voi; ma celasi in alcuna

che dura molto, e le vite son corte.   [81]

E come ‘l volger del ciel de la luna

cuopre e discuopre i liti sanza posa,

così fa di Fiorenza la Fortuna:   [84]

per che non dee parer mirabil cosa

ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini

onde è la fama nel tempo nascosa.   [87]

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,

Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,

già nel calare, illustri cittadini;   [90]

e vidi così grandi come antichi,

con quel de la Sannella, quel de l’Arca,

e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.   [93]

Sovra la porta ch’al presente è carca

di nova fellonia di tanto peso

che tosto fia iattura de la barca,   [96]

erano i Ravignani, ond’è disceso

il conte Guido e qualunque del nome

de l’alto Bellincione ha poscia preso.   [99]

Quel de la Pressa sapeva già come

regger si vuole, e avea Galigaio

dorata in casa sua già l’elsa e ‘l pome.   [102]

Grand’era già la colonna del Vaio,

Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci

e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.   [105]

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci

era già grande, e già eran tratti

a le curule Sizii e Arrigucci.   [108]

Oh quali io vidi quei che son disfatti

per lor superbia! e le palle de l’oro

fiorian Fiorenza in tutt’i suoi gran fatti.   [111]

Così facieno i padri di coloro

che, sempre che la vostra chiesa vaca,

si fanno grassi stando a consistoro.   [114]

L’oltracotata schiatta che s’indraca

dietro a chi fugge, e a chi mostra ‘l dente

o ver la borsa, com’agnel si placa,   [117]

già venìa sù, ma di picciola gente;

sì che non piacque ad Ubertin Donato

che poi il suocero il fé lor parente.   [120]

Già era ‘l Caponsacco nel mercato

disceso giù da Fiesole, e già era

buon cittadino Giuda e Infangato.   [123]

Io dirò cosa incredibile e vera:

nel picciol cerchio s’entrava per porta

che si nomava da quei de la Pera.   [126]

Ciascun che de la bella insegna porta

del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio

la festa di Tommaso riconforta,   [129]

da esso ebbe milizia e privilegio;

avvegna che con popol si rauni

oggi colui che la fascia col fregio.   [132]

Già eran Gualterotti e Importuni;

e ancor saria Borgo più quieto,

se di novi vicin fosser digiuni.   [135]

La casa di che nacque il vostro fleto,

per lo giusto disdegno che v’ha morti,

e puose fine al vostro viver lieto,   [138]

era onorata, essa e suoi consorti:

o Buondelmonte, quanto mal fuggisti

le nozze sue per li altrui conforti!   [141]

Molti sarebber lieti, che son tristi,

se Dio t’avesse conceduto ad Ema

la prima volta ch’a città venisti.   [144]

Ma conveniesi a quella pietra scema

che guarda ‘l ponte, che Fiorenza fesse

vittima ne la sua pace postrema.   [147]

Con queste genti, e con altre con esse,

vid’io Fiorenza in sì fatto riposo,

che non avea cagione onde piangesse:   [150]

con queste genti vid’io glorioso

e giusto il popol suo, tanto che ‘l giglio

non era ad asta mai posto a ritroso,   [153]

né per division fatto vermiglio».