Inferno – Canto IX

Inferno – Canto IX / Nono Canto / Canto 9°

Temi e versi: 1-33 Paura di Dante • 34-63 Le Furie • 64-105 Il messo divino • 106-133 Dentro le mura: il cimitero degli eretici

Inferno

CANTO IX

Quel color che viltà di fuor mi pinse

veggendo il duca mio tornare in volta,

più tosto dentro il suo novo ristrinse.   [3]

Attento si fermò com’uom ch’ascolta;

ché l’occhio nol potea menare a lunga

per l’aere nero e per la nebbia folta.   [6]

«Pur a noi converrà vincer la punga»,

cominciò el, «se non… Tal ne s’offerse.

Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».   [9]

I’ vidi ben sì com’ei ricoperse

lo cominciar con l’altro che poi venne,

che fur parole a le prime diverse;   [12]

ma nondimen paura il suo dir dienne,

perch’io traeva la parola tronca

forse a peggior sentenzia che non tenne.   [15]

«In questo fondo de la trista conca

discende mai alcun del primo grado,

che sol per pena ha la speranza cionca?».   [18]

Questa question fec’io; e quei «Di rado

incontra», mi rispuose, «che di noi

faccia il cammino alcun per qual io vado.   [21]

Ver è ch’altra fiata qua giù fui,

congiurato da quella Eritón cruda

che richiamava l’ombre a’ corpi sui.   [24]

Di poco era di me la carne nuda,

ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,

per trarne un spirto del cerchio di Giuda.   [27]

Quell’è ‘l più basso loco e ‘l più oscuro,

e ‘l più lontan dal ciel che tutto gira:

ben so ‘l cammin; però ti fa sicuro.   [30]

Questa palude che ‘l gran puzzo spira

cigne dintorno la città dolente,

u’ non potemo intrare omai sanz’ira».   [33]

E altro disse, ma non l’ho a mente;

però che l’occhio m’avea tutto tratto

ver’ l’alta torre a la cima rovente,   [36]

dove in un punto furon dritte ratto

tre furie infernal di sangue tinte,

che membra feminine avieno e atto,   [39]

e con idre verdissime eran cinte;

serpentelli e ceraste avien per crine,

onde le fiere tempie erano avvinte.   [42]

E quei, che ben conobbe le meschine

de la regina de l’etterno pianto,

«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.   [45]

Quest’è Megera dal sinistro canto;

quella che piange dal destro è Aletto;

Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.   [48]

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;

battiensi a palme, e gridavan sì alto,

ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.   [51]

«Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto»,

dicevan tutte riguardando in giuso;

«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».   [54]

«Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;

ché se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi,

nulla sarebbe di tornar mai suso».   [57]

Così disse ‘l maestro; ed elli stessi

mi volse, e non si tenne a le mie mani,

che con le sue ancor non mi chiudessi.   [60]

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ‘l velame de li versi strani.   [63]

E già venia su per le torbide onde

un fracasso d’un suon, pien di spavento,

per cui tremavano amendue le sponde,   [66]

non altrimenti fatto che d’un vento

impetuoso per li avversi ardori,

che fier la selva e sanz’alcun rattento   [69]

li rami schianta, abbatte e porta fori;

dinanzi polveroso va superbo,

e fa fuggir le fiere e li pastori.   [72]

i occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo

del viso su per quella schiuma antica

per indi ove quel fummo è più acerbo».   [75]

Come le rane innanzi a la nimica

biscia per l’acqua si dileguan tutte,

fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,   [78]

vid’io più di mille anime distrutte

fuggir così dinanzi ad un ch’al passo

passava Stige con le piante asciutte.   [81]

Dal volto rimovea quell’aere grasso,

menando la sinistra innanzi spesso;

e sol di quell’angoscia parea lasso.   [84]

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,

e volsimi al maestro; e quei fé segno

ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.   [87]

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Venne a la porta, e con una verghetta

l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.   [90]

«O cacciati del ciel, gente dispetta»,

cominciò elli in su l’orribil soglia,

«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?   [93]

Perché recalcitrate a quella voglia

a cui non puote il fin mai esser mozzo,

e che più volte v’ha cresciuta doglia?   [96]

Che giova ne le fata dar di cozzo?

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,

ne porta ancor pelato il mento e ‘l gozzo».   [99]

Poi si rivolse per la strada lorda,

e non fé motto a noi, ma fé sembiante

d’omo cui altra cura stringa e morda   [102]

che quella di colui che li è davante;

e noi movemmo i piedi inver’ la terra,

sicuri appresso le parole sante.   [105]

Dentro li ‘ntrammo sanz’alcuna guerra;

e io, ch’avea di riguardar disio

la condizion che tal fortezza serra,   [108]

com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;

e veggio ad ogne man grande campagna

piena di duolo e di tormento rio.   [111]

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,

sì com’a Pola, presso del Carnaro

ch’Italia chiude e suoi termini bagna,   [114]

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,

così facevan quivi d’ogne parte,

salvo che ‘l modo v’era più amaro;   [117]

ché tra gli avelli fiamme erano sparte,

per le quali eran sì del tutto accesi,

che ferro più non chiede verun’arte.   [120]

Tutti li lor coperchi eran sospesi,

e fuor n’uscivan sì duri lamenti,

che ben parean di miseri e d’offesi.   [123]

E io: «Maestro, quai son quelle genti

che, seppellite dentro da quell’arche,

si fan sentir coi sospiri dolenti?».   [126]

Ed elli a me: «Qui son li eresiarche

con lor seguaci, d’ogne setta, e molto

più che non credi son le tombe carche.   [129]

Simile qui con simile è sepolto,

e i monimenti son più e men caldi».

E poi ch’a la man destra si fu vòlto,   [132]

passammo tra i martiri e li alti spaldi.