Paradiso – Canto XXI / Ventunesimo Canto / Canto 21°
Temi e canti: 1-24 Il cielo di Saturno • 25-42 La scala d’oro • 43-126 San Pier Damiani • 127-142 Invettiva contro i prelati
Paradiso
CANTO XXI
Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento s’era tolto. [3]
E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi; [6]
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale, [9]
se non si temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende. [12]
Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ‘l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore. [15]
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che ‘n questo specchio ti sarà parvente». [18]
Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l’aspetto beato
quand’io mi trasmutai ad altra cura, [21]
conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l’un con l’altro lato. [24]
Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta, [27]
di color d’oro in che raggio traluce
vid’io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce. [30]
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso. [33]
E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume; [36]
poi altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno; [39]
tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ‘nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse. [42]
E quel che presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne. [45]
Ma quella ond’io aspetto il come e ‘l quando
del dire e del tacer, si sta; ond’io,
contra ‘l disio, fo ben ch’io non dimando’. [48]
Per ch’ella, che vedea il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». [51]
E io incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ‘l chieder mi concede, [54]
vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t’ha posta; [57]
e di’ perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l’altre suona sì divota». [60]
«Tu hai l’udir mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Beatrice non ha riso. [63]
Giù per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta; [66]
né più amor mi fece esser più presta;
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta. [69]
Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ‘l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve». [72]
«Io veggio ben», diss’io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna; [75]
ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte». [78]
Né venni prima a l’ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola; [81]
poi rispuose l’amor che v’era dentro:
«Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro, [84]
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta. [87]
Quinci vien l’allegrezza ond’io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio. [90]
Ma quell’alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che ‘n Dio più l’occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara, [93]
però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso. [96]
E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi. [99]
La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché ‘l ciel l’assumma». [102]
Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue. [105]
«Tra ‘ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ‘ troni assai suonan più bassi, [108]
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria». [111]
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continuando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, [114]
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi. [117]
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli. [120]
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano. [123]
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa. [126]
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello. [129]
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. [132]
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’una pelle:
oh pazienza che tanto sostieni!». [135]
A questa voce vid’io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle. [138]
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi; [141]
né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono.