Paradiso – Canto VIII / Ottavo Canto / Canto 8°
Temi e canti: 1-30 Il cielo di Venere • 31-84 Carlo Martello • 85-148 Sulla diversità dei caratteri umani
Paradiso
CANTO VIII
Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo; [3]
per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore; [6]
ma Dione onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch’el sedette in grembo a Dido; [9]
e da costei ond’io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che ‘l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. [12]
Io non m’accorsi del salire in ella;
ma d’esservi entro mi fé assai fede
la donna mia ch’i’ vidi far più bella. [15]
E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e altra va e riede, [18]
vid’io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne. [21]
Di fredda nube non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti [24]
a chi avesse quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini; [27]
e dentro a quei che più innanzi appariro
sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi
di riudir non fui sanza disiro. [30]
Indi si fece l’un più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi. [33]
Noi ci volgiam coi principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti: [36]
‘Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete’;
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quiete». [39]
Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi, [42]
rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa. [45]
E quanta e quale vid’io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
quando parlai, a l’allegrezze sue! [48]
Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe. [51]
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato. [54]
Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde. [57]
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava, [60]
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona
da ove Tronto e Verde in mare sgorga. [63]
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ‘l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona. [66]
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga, [69]
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo, [72]
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”. [75]
E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse; [78]
ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
carcata più d’incarco non si pogna. [81]
La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca». [84]
«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ‘l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
là ‘ve ogne ben si termina e s’inizia, [87]
per te si veggia come la vegg’io,
grata m’è più; e anco quest’ho caro
perché ‘l discerni rimirando in Dio. [90]
Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’esser può, di dolce seme, amaro». [93]
Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso. [96]
Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi. [99]
E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute: [102]
per che quantunque quest’arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta. [105]
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine; [108]
e ciò esser non può, se li ‘ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti. [111]
Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi». [114]
Ond’elli ancora: «Or di’: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos’io; «e qui ragion non cheggio». [117]
«E puot’elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se ‘l maestro vostro ben vi scrive». [120]
Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici: [123]
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse. [126]
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello. [129]
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte. [132]
Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino. [135]
Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t’ammanti. [138]
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ogne altra semente
fuor di sua region, fa mala prova. [141]
E se ‘l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente. [144]
Ma voi torcete a la religione
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone; [147]
onde la traccia vostra è fuor di strada».