Inferno – Canto XXXIII / Trentatreesimo Canto / Canto 33°
Temi e versi: 1-78 Il racconto del conte Ugolino • 79-90 Invettiva contro Pisa • 91-108 La Tolomea: i traditori degli ospiti • 109-150 Frate Alberigo, Branca Doria • 151-157 Invettiva contro Genova
Inferno
CANTO XXXIII
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto. [3]
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ‘l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli. [6]
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme. [9]
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo. [12]
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. [15]
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; [18]
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso. [21]
Breve pertugio dentro da la Muda
la qual per me ha ‘l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, [24]
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ‘l mal sonno
che del futuro mi squarciò ‘l velame. [27]
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ‘ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. [30]
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte. [33]
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ‘ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. [36]
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane. [39]
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? [42]
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ‘l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; [45]
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. [48]
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”. [51]
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. [54]
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, [57]
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi [60]
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”. [63]
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi? [66]
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non mi aiuti?”. [69]
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi, [72]
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno». [75]
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ‘l teschio misero co’denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti. [78]
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti, [81]
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona! [84]
Ché se ‘l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. [87]
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata
e li altri due che ‘l canto suso appella. [90]
Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata. [93]
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia; [96]
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo. [99]
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo, [102]
già mi parea sentire alquanto vento:
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?». [105]
Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ‘l fiato piove». [108]
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
tanto che data v’è l’ultima posta, [111]
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna,
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli». [114]
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». [117]
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo». [120]
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ‘l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scienza porto. [123]
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea. [126]
E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade [129]
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto. [132]
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna. [135]
Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso». [138]
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni». [141]
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche, [144]
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ‘l tradimento insieme con lui fece. [147]
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano. [150]
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi? [153]
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna, [156]
e in corpo par vivo ancor di sopra.