Inferno – Canto XXX / Trentesimo Canto / Canto 30°
Temi e versi: 1-45 I falsari di persona: Gianni Schicchi, Mirra • 46-90 I falsari di moneta: maestro Adamo • 91-99 I falsari di parola: la moglie di Putifarre e Sinone • 100-148 La rissa tra Mastro Adamo e Sinone
Inferno
CANTO XXX
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ‘l sangue tebano,
come mostrò una e altra fiata, [3]
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano, [6]
gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ‘ leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli, [9]
prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco. [12]
E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ‘nsieme col regno il re fu casso, [15]
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva [18]
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta. [21]
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane, [24]
quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ‘l porco quando del porcil si schiude. [27]
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo. [30]
E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando». [33]
«Oh!», diss’io lui, «se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi». [36]
Ed elli a me: «Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica. [39]
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne, [42]
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma». [45]
E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati. [48]
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto. [51]
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ‘l viso non risponde a la ventraia, [54]
facea lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ‘l mento e l’altro in sù rinverte. [57]
«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete [60]
a la miseria del maestro Adamo:
io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. [63]
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli, [66]
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ‘l male ond’io nel volto mi discarno. [69]
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. [72]
Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. [75]
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. [78]
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate? [81]
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, [84]
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha. [87]
Io son per lor tra sì fatta famiglia:
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia». [90]
E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ‘l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?». [93]
«Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno. [96]
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ‘l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo». [99]
E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia. [102]
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro, [105]
dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto». [108]
Ond’ei rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi». [111]
E l’idropico: «Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ‘ve del ver fosti a Troia richesto». [114]
«S’io dissi falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!». [117]
«Ricorditi, spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch’avea infiata l’epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!». [120]
«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse ‘l Greco, «la lingua, e l’acqua marcia
che ‘l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!». [123]
Allora il monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, [126]
tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ‘nvitar molte parole». [129]
Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ‘l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!». [132]
Quand’io ‘l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira. [135]
Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, [138]
tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare. [141]
«Maggior difetto men vergogna lava»,
disse ‘l maestro, «che ‘l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava. [144]
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato: [147]
ché voler ciò udire è bassa voglia».