Inferno – Canto XXVI / Ventiseiesimo Canto / Canto 26°
Temi e versi: 1-12 Invettiva contro Firenze • 13-48 La bolgia dei consiglieri fraudolenti • 49-84 Ulisse e Diomede • 85-142 Racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse
Inferno
CANTO XXVI
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande! [3]
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali. [6]
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. [9]
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’più m’attempo. [12]
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ‘l duca mio e trasse mee; [15]
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia. [18]
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, [21]
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi. [24]
Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ‘l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa, [27]
come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara: [30]
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea. [33]
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ‘l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi, [36]
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire: [39]
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ‘l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola. [42]
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto. [45]
E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso». [48]
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti: [51]
chi è ‘n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?». [54]
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira; [57]
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme. [60]
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta». [63]
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ‘l priego vaglia mille, [66]
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!». [69]
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna. [72]
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto». [75]
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi: [78]
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco [81]
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi». [84]
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica; [87]
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando [90]
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse, [93]
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta, [96]
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore; [99]
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto. [102]
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna. [105]
Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi, [108]
acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta. [111]
“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia [114]
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente. [117]
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. [120]
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti; [123]
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. [126]
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo. [129]
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, [132]
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna. [135]
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto. [138]
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, [141]
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».