Inferno – Canto XXV / Venticinquesimo Canto / Canto 25°
Temi e versi: 1-16 Vanni Fucci e l’invettiva contro Pistoia • 17-33 Il centauro Caco • 34-78 I ladri fiorentini: altra metamorfosi • 79-151 Terza metamorfosi
Inferno
CANTO XXV
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». [3]
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ‘Non vo’ che più diche’; [6]
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo. [9]
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi? [12]
Per tutt’i cerchi de lo ‘nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri. [15]
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». [18]
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. [21]
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa. [24]
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che sotto ‘l sasso di monte Aventino
di sangue fece spesse volte laco. [27]
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; [30]
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece». [33]
Mentre che sì parlava, ed el trascorse
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quali né io né ‘l duca mio s’accorse, [36]
se non quando gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi. [39]
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, [42]
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ‘l duca stesse attento,
mi puosi ‘l dito su dal mento al naso. [45]
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ‘l vidi, a pena il mi consento. [48]
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. [51]
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,
e con li anterior le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; [54]
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ‘mbedue,
e dietro per le ren sù la ritese. [57]
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. [60]
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: [63]
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ‘l bianco more. [66]
Li altri due ‘l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». [69]
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. [72]
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l casso
divenner membra che non fuor mai viste. [75]
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. [78]
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, [81]
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; [84]
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. [87]
Lo trafitto ‘l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. [90]
Elli ‘l serpente, e quei lui riguardava;
l’un per la piaga, e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ‘l fummo si scontrava. [93]
Taccia Lucano ormai là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. [96]
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio;
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ‘nvidio; [99]
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. [102]
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ‘l serpente la coda in forca fesse,
e il feruto ristrinse insieme l’orme. [105]
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ‘n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. [108]
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura. [111]
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle. [114]
Poscia li piè di retro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ‘l misero del suo n’avea due porti. [117]
Mentre che ‘l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ‘l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, [120]
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. [123]
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; [126]
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. [129]
Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; [132]
e la lingua, ch’avea unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta. [135]
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. [138]
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ho fatt’io, carpon per questo calle». [141]
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. [144]
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, [147]
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; [150]
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.