Inferno – Canto XXIV

Inferno – Canto XXIV / Ventiquattresimo Canto / Canto 24°

Temi e versi: 1-63 L’argine della settima bolgia • 64-96 La bolgia dei ladri • 97-120 Metamorfosi dei ladri • 121-151 Vanni Fucci e la sua profezia

Inferno

CANTO XXIV

In quella parte del giovanetto anno

che ‘l sole i crin sotto l’Aquario tempra

e già le notti al mezzo dì sen vanno,   [3]

quando la brina in su la terra assempra

l’imagine di sua sorella bianca,

ma poco dura a la sua penna tempra,   [6]

lo villanello a cui la roba manca,

si leva, e guarda, e vede la campagna

biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,   [9]

ritorna in casa, e qua e là si lagna,

come ‘l tapin che non sa che si faccia;

poi riede, e la speranza ringavagna,   [12]

veggendo ‘l mondo aver cangiata faccia

in poco d’ora, e prende suo vincastro,

e fuor le pecorelle a pascer caccia.   [15]

Così mi fece sbigottir lo mastro

quand’io li vidi sì turbar la fronte,

e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro;   [18]

ché, come noi venimmo al guasto ponte,

lo duca a me si volse con quel piglio

dolce ch’io vidi prima a piè del monte.   [21]

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio

eletto seco riguardando prima

ben la ruina, e diedemi di piglio.   [24]

E come quei ch’adopera ed estima,

che sempre par che ‘nnanzi si proveggia,

così, levando me sù ver la cima   [27]

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia

dicendo: «Sovra quella poi t’aggrappa;

ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia».   [30]

Non era via da vestito di cappa,

ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,

potavam sù montar di chiappa in chiappa.   [33]

E se non fosse che da quel precinto

più che da l’altro era la costa corta,

non so di lui, ma io sarei ben vinto.   [36]

Ma perché Malebolge inver’ la porta

del bassissimo pozzo tutta pende,

lo sito di ciascuna valle porta   [39]

che l’una costa surge e l’altra scende;

noi pur venimmo al fine in su la punta

onde l’ultima pietra si scoscende.   [42]

La lena m’era del polmon sì munta

quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,

anzi m’assisi ne la prima giunta.   [45]

«Omai convien che tu così ti spoltre»,

disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma,

in fama non si vien, né sotto coltre;   [48]

sanza la qual chi sua vita consuma,

cotal vestigio in terra di sé lascia,

qual fummo in aere e in acqua la schiuma.   [51]

E però leva sù: vinci l’ambascia

con l’animo che vince ogne battaglia,

se col suo grave corpo non s’accascia.   [54]

Più lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito.

Se tu mi ‘ntendi, or fa sì che ti vaglia».   [57]

Leva’mi allor, mostrandomi fornito

meglio di lena ch’i’ non mi sentìa;

e dissi: «Va, ch’i’ son forte e ardito».   [60]

Su per lo scoglio prendemmo la via,

ch’era ronchioso, stretto e malagevole,

ed erto più assai che quel di pria.   [63]

Parlando andava per non parer fievole;

onde una voce uscì de l’altro fosso,

a parole formar disconvenevole.   [66]

Non so che disse, ancor che sovra ‘l dosso

fossi de l’arco già che varca quivi;

ma chi parlava ad ire parea mosso.   [69]

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi

non poteano ire al fondo per lo scuro;

per ch’io: «Maestro, fa che tu arrivi   [72]

da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;

ché, com’i’ odo quinci e non intendo,

così giù veggio e neente affiguro».   [75]

«Altra risposta», disse, «non ti rendo

se non lo far; ché la dimanda onesta

si de’ seguir con l’opera tacendo».   [78]

Noi discendemmo il ponte da la testa

dove s’aggiugne con l’ottava ripa,

e poi mi fu la bolgia manifesta:   [81]

e vidivi entro terribile stipa

di serpenti, e di sì diversa mena

che la memoria il sangue ancor mi scipa.   [84]

Più non si vanti Libia con sua rena;

ché se chelidri, iaculi e faree

produce, e cencri con anfisibena,   [87]

né tante pestilenzie né sì ree

mostrò già mai con tutta l’Etiopia

né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.   [90]

Tra questa cruda e tristissima copia

correan genti nude e spaventate,

sanza sperar pertugio o elitropia:   [93]

con serpi le man dietro avean legate;

quelle ficcavan per le ren la coda

e ‘l capo, ed eran dinanzi aggroppate.   [96]

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,

s’avventò un serpente che ‘l trafisse

là dove ‘l collo a le spalle s’annoda.   [99]

Né O sì tosto mai né I si scrisse,

com’el s’accese e arse, e cener tutto

convenne che cascando divenisse;   [102]

e poi che fu a terra sì distrutto,

la polver si raccolse per sé stessa,

e ‘n quel medesmo ritornò di butto.   [105]

Così per li gran savi si confessa

che la fenice more e poi rinasce,

quando al cinquecentesimo anno appressa;   [108]

erba né biado in sua vita non pasce,

ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,

e nardo e mirra son l’ultime fasce.   [111]

E qual è quel che cade, e non sa como,

per forza di demon ch’a terra il tira,

o d’altra oppilazion che lega l’omo,   [114]

quando si leva, che ‘ntorno si mira

tutto smarrito de la grande angoscia

ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:   [117]

tal era il peccator levato poscia.

Oh potenza di Dio, quant’è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!   [120]

Lo duca il domandò poi chi ello era;

per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,

poco tempo è, in questa gola fiera.   [123]

Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fu degna tana».   [126]

E io al duca: «Dilli che non mucci,

e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;

ch’io ‘l vidi uomo di sangue e di crucci».   [129]

E ‘l peccator, che ‘ntese, non s’infinse,

ma drizzò verso me l’animo e ‘l volto,

e di trista vergogna si dipinse;   [132]

poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto

ne la miseria dove tu mi vedi,

che quando fui de l’altra vita tolto.   [135]

Io non posso negar quel che tu chiedi;

in giù son messo tanto perch’io fui

ladro a la sagrestia d’i belli arredi,   [138]

e falsamente già fu apposto altrui.

Ma perché di tal vista tu non godi,

se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,   [141]

apri li orecchi al mio annunzio, e odi:

Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;

poi Fiorenza rinova gente e modi.   [144]

Tragge Marte vapor di Val di Magra

ch’è di torbidi nuvoli involuto;

e con tempesta impetuosa e agra   [147]

sovra Campo Picen fia combattuto;

ond’ei repente spezzerà la nebbia,

sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.   [150]

E detto l’ho perché doler ti debbia!».