Inferno – Canto XXIII / Ventitreesimo Canto / Canto 23°
Temi e versi: 1-57 Fuga di Dante e Virgilio • 58-72 La bolgia degli ipocriti • 73-108 I frati gaudenti: Catalano e Loderingo • 109-126 Caifa • 127-148 Le menzogne del diavolo
Inferno
CANTO XXIII
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via. [3]
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo; [6]
ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa. [9]
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia. [12]
Io pensava così: ‘Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. [15]
Se l’ira sovra ‘l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ‘l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. [18]
Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: «Maestro, se non celi [21]
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ‘magino sì, che già li sento». [24]
E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ‘mpetro. [27]
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ‘ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei. [30]
S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia». [33]
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere. [36]
Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese, [39]
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta; [42]
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. [45]
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia, [48]
come ‘l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ‘l suo petto,
come suo figlio, non come compagno. [51]
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto; [54]
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle. [57]
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta. [60]
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi. [63]
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia. [66]
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto; [69]
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca. [72]
Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi». [75]
E un che ‘ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca! [78]
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».
Onde ‘l duca si volse e disse: «Aspetta
e poi secondo il suo passo procedi». [81]
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ‘l carco e la via stretta. [84]
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco: [87]
«Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?». [90]
Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio». [93]
E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto
sovra ‘l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto. [96]
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?». [99]
E l’un rispuose a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance. [102]
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi, [105]
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo». [108]
Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali. [111]
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ‘l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse, [114]
mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri. [117]
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria. [120]
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa». [123]
Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio. [126]
Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce [129]
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci». [132]
Rispuose adunque: «Più che tu non speri
s’appressa un sasso che de la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri, [135]
salvo che ‘n questo è rotto e nol coperchia
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia». [138]
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina». [142]
E ‘l frate: «Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ‘ quali udi’
ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna». [145]
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ‘ncarcati mi parti’ [148]
dietro a le poste de le care piante.