Inferno – Canto VIII

Inferno – Canto VIII / Ottavo Canto / Canto 8°

Temi e versi: 1-30 Passaggio dello Stige, Flegias • 1 Io dico, seguitando… • 31-63 Filippo Argenti • 64-130 Le mura della città di Dite

Inferno

CANTO VIII

Io dico, seguitando, ch’assai prima

che noi fossimo al piè de l’alta torre,

li occhi nostri n’andar suso a la cima   [3]

per due fiammette che i vedemmo porre

e un’altra da lungi render cenno

tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.   [6]

E io mi volsi al mar di tutto ‘l senno;

dissi: «Questo che dice? e che risponde

quell’altro foco? e chi son quei che ‘l fenno?».   [9]

Ed elli a me: «Su per le sucide onde

già scorgere puoi quello che s’aspetta,

se ‘l fummo del pantan nol ti nasconde».   [12]

Corda non pinse mai da sé saetta

che sì corresse via per l’aere snella,

com’io vidi una nave piccioletta   [15]

venir per l’acqua verso noi in quella,

sotto ‘l governo d’un sol galeoto,

che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».   [18]

«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,

disse lo mio segnore «a questa volta:

più non ci avrai che sol passando il loto».   [21]

Qual è colui che grande inganno ascolta

che li sia fatto, e poi se ne rammarca,

fecesi Flegiàs ne l’ira accolta.   [24]

Lo duca mio discese ne la barca,

e poi mi fece intrare appresso lui;

e sol quand’io fui dentro parve carca.   [27]

Tosto che ‘l duca e io nel legno fui,

segando se ne va l’antica prora

de l’acqua più che non suol con altrui.   [30]

Mentre noi corravam la morta gora,

dinanzi mi si fece un pien di fango,

e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».   [33]

E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;

ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».

Rispuose: «Vedi che son un che piango».   [36]

E io a lui: «Con piangere e con lutto,

spirito maladetto, ti rimani;

ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».   [39]

Allor distese al legno ambo le mani;

per che ‘l maestro accorto lo sospinse,

dicendo: «Via costà con li altri cani!».   [42]

Lo collo poi con le braccia mi cinse;

basciommi ‘l volto, e disse: «Alma sdegnosa,

benedetta colei che ‘n te s’incinse!   [45]

Quei fu al mondo persona orgogliosa;

bontà non è che sua memoria fregi:

così s’è l’ombra sua qui furiosa.   [48]

Quanti si tegnon or là sù gran regi

che qui staranno come porci in brago,

di sé lasciando orribili dispregi!».   [51]

E io: «Maestro, molto sarei vago

di vederlo attuffare in questa broda

prima che noi uscissimo del lago».   [54]

Ed elli a me: «Avante che la proda

ti si lasci veder, tu sarai sazio:

di tal disio convien che tu goda».   [57]

Dopo ciò poco vid’io quello strazio

far di costui a le fangose genti,

che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.   [60]

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;

e ‘l fiorentino spirito bizzarro

in sé medesmo si volvea co’ denti.   [63]

Quivi il lasciammo, che più non ne narro;

ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,

per ch’io avante l’occhio intento sbarro.   [66]

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,

s’appressa la città c’ha nome Dite,

coi gravi cittadin, col grande stuolo».   [69]

E io: «Maestro, già le sue meschite

là entro certe ne la valle cerno,

vermiglie come se di foco uscite   [72]

fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno

ch’entro l’affoca le dimostra rosse,

come tu vedi in questo basso inferno».   [75]

Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse

che vallan quella terra sconsolata:

le mura mi parean che ferro fosse.   [78]

Non sanza prima far grande aggirata,

venimmo in parte dove il nocchier forte

«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».   [81]

Io vidi più di mille in su le porte

da ciel piovuti, che stizzosamente

dicean: «Chi è costui che sanza morte   [84]

va per lo regno de la morta gente?».

E ‘l savio mio maestro fece segno

di voler lor parlar segretamente.   [87]

Allor chiusero un poco il gran disdegno,

e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,

che sì ardito intrò per questo regno.   [90]

Sol si ritorni per la folle strada:

pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai

che li ha’ iscorta sì buia contrada».   [93]

Pensa, lettor, se io mi sconfortai

nel suon de le parole maladette,

ché non credetti ritornarci mai.   [96]

«O caro duca mio, che più di sette

volte m’hai sicurtà renduta e tratto

d’alto periglio che ‘ncontra mi stette,   [99]

non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;

e se ‘l passar più oltre ci è negato,

ritroviam l’orme nostre insieme ratto».   [102]

E quel segnor che lì m’avea menato,

mi disse: «Non temer; ché ‘l nostro passo

non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.   [105]

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso

conforta e ciba di speranza buona,

ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».   [108]

Così sen va, e quivi m’abbandona

lo dolce padre, e io rimagno in forse,

che sì e no nel capo mi tenciona.   [111]

Udir non potti quello ch’a lor porse;

ma ei non stette là con essi guari,

che ciascun dentro a pruova si ricorse.   [114]

Chiuser le porte que’ nostri avversari

nel petto al mio segnor, che fuor rimase,

e rivolsesi a me con passi rari.   [117]

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase

d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:

«Chi m’ha negate le dolenti case!».   [120]

E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,

non sbigottir, ch’io vincerò la prova,

qual ch’a la difension dentro s’aggiri.   [123]

Questa lor tracotanza non è nova;

ché già l’usaro a men segreta porta,

la qual sanza serrame ancor si trova.   [126]

Sovr’essa vedestù la scritta morta:

e già di qua da lei discende l’erta,

passando per li cerchi sanza scorta,   [129]

tal che per lui ne fia la terra aperta».