Inferno – Canto XVIII / Diciottesimo Canto / Canto 18°
Temi e versi: 1-21 Descrizione di Malebolge • 22-39 Ruffiani e seduttori • 40-66 Venedico Caccianemico • 67-99 Giasone • 100-126 Adulatori: Alessio Interminelli • 127-136 Taide
Inferno
CANTO XVIII
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge. [3]
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno. [6]
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ‘l pozzo e ‘l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo. [9]
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura, [12]
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli, [15]
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ‘ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli. [18]
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerion, trovammoci; e ‘l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi. [21]
A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta. [24]
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ‘l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori, [27]
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto, [30]
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro;
da l’altra sponda vanno verso ‘l monte. [33]
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro. [36]
Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze. [39]
Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno». [42]
Per ch’io a figurarlo i piedi affissi;
e ‘l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi. [45]
E quel frustato celar si credette
bassando ‘l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette, [48]
se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?». [51]
Ed elli a me: «Mal volentier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico. [54]
I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella. [57]
E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo luogo tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese [60]
a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno». [63]
Così parlando il percosse un demonio
de la sua scuriada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio». [66]
I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ‘v’uno scoglio de la ripa uscia. [69]
Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo. [72]
Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia [75]
lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati». [78]
Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia. [81]
E ‘l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda: [84]
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne. [87]
Ello passò per l’isola di Lenno,
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno. [90]
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate. [93]
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta. [96]
Con lui sen va chi da tal parte inganna:
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ‘n sé assanna». [99]
Già eravam là ‘ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle. [102]
Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia. [105]
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa. [108]
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta. [111]
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso. [114]
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parea s’era laico o cherco. [117]
Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo, [120]
già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti». [123]
Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca». [126]
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe [129]
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante. [132]
Taide è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”. [135]
E quinci sien le nostre viste sazie».