Inferno – Canto XIV / Quattordicesimo Canto / Canto 14°
Temi e versi: 1-42 La distesa infuocata • 43-72 Capaneo • 73-93 Il ruscello di sangue • 94-120 Il Veglio di Creta • 121-142 I fiumi infernali
Inferno
CANTO XIV
Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte,
e rende’le a colui, ch’era già fioco. [3]
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte. [6]
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove. [9]
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ‘l fosso tristo ad essa:
quivi fermammo i passi a randa a randa. [12]
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa. [15]
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi miei! [18]
D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge. [21]
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continuamente. [24]
Quella che giva intorno era più molta,
e quella men che giacea al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta. [27]
Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento. [30]
Quali Alessandro in quelle parti calde
d’India vide sopra ‘l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde, [33]
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo: [36]
tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. [39]
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca. [42]
I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ‘ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci, [45]
chi è quel grande che non par che curi
lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ‘l marturi?». [48]
E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. [51]
Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui; [54]
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”, [57]
sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza,
non ne potrebbe aver vendetta allegra». [60]
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza [63]
la tua superbia, se’ tu più punito:
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito». [66]
Poi si rivolse a me con miglior labbia
dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia [69]
Dio in disdegno, e poco par che ‘l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi. [72]
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti». [75]
Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia. [78]
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello. [81]
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’era ‘n pietra, e ‘ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ‘l passo era lici. [84]
«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato, [87]
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ‘l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta». [90]
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ‘l pregai che mi largisse ‘l pasto
di cui largito m’avea il disio. [93]
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto. [96]
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida:
or è diserta come cosa vieta. [99]
Rea la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. [102]
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come suo speglio. [105]
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ‘l petto,
poi è di rame infino a la forcata; [108]
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ‘l destro piede è terra cotta;
e sta ‘n su quel più che ‘n su l’altro, eretto. [111]
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, foran quella grotta. [114]
Lor corso in questa valle si diroccia:
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia [117]
infin, là ove più non si dismonta
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». [120]
E io a lui: «Se ‘l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». [123]
Ed elli a me: «Tu sai che ‘l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, [126]
non se’ ancor per tutto il cerchio vòlto:
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto». [129]
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova». [132]
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose; «ma ‘l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci. [135]
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». [138]
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi, [141]
e sopra loro ogne vapor si spegne».