Inferno – Canto XIII / Tredicesimo Canto / Canto 13°
Temi e versi: 1-30 La selva dei suicidi • 31-54 L’arbusto sanguinante • 55-78 Pier delle Vigne • 79-108 Spiegazione di come i suicidi si trasformino in piante • 109-129 Gli scialacquatori • 130-151 Il suicida fiorentino
Inferno
CANTO XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. [3]
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: [6]
non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. [9]
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. [12]
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. [15]
E ‘l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre [18]
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone». [21]
Io sentia d’ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che ‘l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. [24]
Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse. [27]
Però disse ‘l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi». [30]
Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». [33]
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? [36]
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi». [39]
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, [42]
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme. [45]
«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ‘l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima, [48]
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. [51]
Ma dilli chi tu fosti, sì che ‘n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece». [54]
E ‘l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’io un poco a ragionar m’inveschi. [57]
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi, [60]
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ‘ polsi. [63]
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, [66]
infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti. [69]
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. [72]
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno. [75]
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ‘nvidia le diede». [78]
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ‘l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». [81]
Ond’io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». [84]
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ‘l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia [87]
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega». [90]
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi. [93]
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce. [96]
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta. [99]
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. [102]
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. [105]
Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». [108]
Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi, [111]
similemente a colui che venire
sente ‘l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire. [114]
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta. [117]
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte [120]
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo. [123]
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena. [126]
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti. [129]
Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano. [132]
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?». [135]
Quando ‘l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?». [138]
Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte, [141]
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond’ei per questo [144]
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ‘n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista, [147]
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ‘l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno. [150]
Io fei gibbetto a me de le mie case».