Inferno – Canto XII / Dodicesimo Canto / Canto 12°
Temi e versi: 1-45 La frana e il Minotauro • 46-99 Il Flegetonte e i Centauri • 100-139 I violenti contro il prossimo
Inferno
CANTO XII
Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. [3]
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco, [6]
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: [9]
cotal di quel burrato era la scesa;
e ‘n su la punta de la rotta lacca
l’infamia di Creti era distesa [12]
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. [15]
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ‘l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse? [18]
Pàrtiti, bestia: ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene». [21]
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, [24]
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco:
mentre ch’e’ ‘nfuria, è buon che tu ti cale». [27]
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco. [30]
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. [33]
Or vo’ che sappi che l’altra fiata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata. [36]
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno, [39]
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda [42]
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso. [45]
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia». [48]
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! [51]
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ‘l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta; [54]
e tra ‘l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia. [57]
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette; [60]
e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro». [63]
Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta». [66]
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira
e fé di sé la vendetta elli stesso. [69]
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. [72]
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille». [75]
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle. [78]
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca? [81]
Così non soglion far li piè d’i morti».
E ‘l mio buon duca, che già li er’al petto,
dove le due nature son consorti, [84]
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ‘l ci ‘nduce, e non diletto. [87]
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia. [90]
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, [93]
e che ne mostri là dove si guada
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada». [96]
Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa». [99]
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida. [102]
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ‘l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. [105]
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero,
che fé Cicilia aver dolorosi anni. [108]
E quella fronte c’ha ‘l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero [111]
fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo». [114]
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’una gente che ‘nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse. [117]
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola». [120]
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ‘l casso;
e di costoro assai riconobb’io. [123]
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo. [126]
«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ‘l centauro, «voglio che tu credi [129]
che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema. [132]
La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra
e Pirro e Sesto; e in etterno munge [135]
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra». [138]
Poi si rivolse, e ripassossi ‘l guazzo.