Purgatorio – Canto XXVI / Ventiseiesimo Canto / Canto 26°
Temi e canti: 1-87 Le due schiere dei lussuriosi • 88-135 Guido Guinizelli • 136-148 Arnaut Daniel
Purgatorio
CANTO XXVI
Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»; [3]
feriami il sole in su l’omero destro,
che già, raggiando, tutto l’occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro; [6]
e io facea con l’ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt’ombre, andando, poner mente. [9]
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»; [12]
poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi. [15]
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ‘n sete e ‘n foco ardo. [18]
Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’hanno maggior sete
che d’acqua fredda Indo o Etiopo. [21]
Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete». [24]
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
già manifesto, s’io non fossi atteso
ad altra novità ch’apparve allora; [27]
ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso. [30]
Lì veggio d’ogne parte farsi presta
ciascun’ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa; [33]
così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna. [36]
Tosto che parton l’accoglienza amica,
prima che ‘l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s’affatica: [39]
la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché ‘l torello a sua lussuria corra». [42]
Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene,
queste del gel, quelle del sole schife, [45]
l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene; [48]
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti. [51]
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato, [54]
non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture. [57]
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ‘l mortal per vostro mondo reco. [60]
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ‘l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia, [63]
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi». [66]
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s’inurba, [69]
che ciascun’ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta, [72]
«Beato te, che de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria m’inchiese,
«per morir meglio, esperienza imbarche! [75]
La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, triunfando,
“Regina” contra sé chiamar s’intese: [78]
però si parton “Soddoma” gridando,
rimproverando a sé, com’hai udito,
e aiutan l’arsura vergognando. [81]
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito, [84]
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ‘mbestiate schegge. [87]
Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei. [90]
Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo». [93]
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, [96]
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre; [99]
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fiata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai. [102]
Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui. [105]
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Leté nol può tòrre né far bigio. [108]
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro». [111]
E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri». [114]
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno. [117]
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi. [120]
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinione
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. [123]
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone. [126]
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio, [129]
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro». [132]
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo. [135]
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazioso loco. [138]
El cominciò liberamente a dire:
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. [141]
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan. [144]
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!». [147]
Poi s’ascose nel foco che li affina.