Purgatorio – Canto XX / Ventesimo Canto / Canto 20°
Temi e canti: 1-15 Invettiva contro la cupidigia • 16-33 Esempi di povertà e di liberalità • 34-123 Ugo Capeto • 124-151 Terremoto e canto del Gloria
Purgatorio
CANTO XX
Contra miglior voler voler mal pugna;
onde contra ‘l piacer mio, per piacerli,
trassi de l’acqua non sazia la spugna. [3]
Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a’ merli; [6]
ché la gente che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto ‘l mondo occupa,
da l’altra parte in fuor troppo s’approccia. [9]
Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa! [12]
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda? [15]
Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentia
pietosamente piangere e lagnarsi; [18]
e per ventura udi’ «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia; [21]
e seguitar: «Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo». [24]
Seguentemente intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio». [27]
Queste parole m’eran sì piaciute,
ch’io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute. [30]
Esso parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza. [33]
«O anima che tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle. [36]
Non fia sanza mercé la tua parola,
s’io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch’al termine vola». [39]
Ed elli: «Io ti dirò, non per conforto
ch’io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto. [42]
Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta. [45]
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia. [48]
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta. [51]
Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, [54]
trova’mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno, [57]
ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa. [60]
Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male. [63]
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna. [66]
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. [69]
Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ‘ suoi. [72]
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia. [75]
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta. [78]
L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave. [81]
O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c’ha’ il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne? [84]
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto. [87]
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso. [90]
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele. [93]
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? [96]
Ciò ch’io dicea di quell’unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa, [99]
tanto è risposto a tutte nostre prece
quanto ‘l dì dura; ma com’el s’annotta,
contrario suon prendemo in quella vece. [102]
Noi repetiam Pigmalion allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l’oro ghiotta; [105]
e la miseria de l’avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida. [108]
Del folle Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l’ira
di Iosuè qui par ch’ancor lo morda. [111]
Indi accusiam col marito Saffira;
lodiam i calci ch’ebbe Eliodoro;
e in infamia tutto ‘l monte gira [114]
Polinestòr ch’ancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: “Crasso,
dilci, che ‘l sai: di che sapore è l’oro?”. [117]
Talor parla l’uno alto e l’altro basso,
secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo: [120]
però al ben che ‘l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona». [123]
Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n’era permesso, [126]
quand’io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch’a morte vada. [129]
Certo non si scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse ‘l nido
a parturir li due occhi del cielo. [132]
Poi cominciò da tutte parti un grido
tal, che ‘l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr’io ti guido». [135]
‘Gloria in excelsis’ tutti ‘Deo’
dicean, per quel ch’io da’ vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo. [138]
No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che ‘l tremar cessò ed el compiési. [141]
Poi ripigliammo nostro cammin santo,
guardando l’ombre che giacean per terra,
tornate già in su l’usato pianto. [144]
Nulla ignoranza mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra, [147]
quanta pareami allor, pensando, avere;
né per la fretta dimandare er’oso,
né per me lì potea cosa vedere: [150]
così m’andava timido e pensoso.